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Channel: operaio – La nuvola del lavoro
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Che fine ha fatto l’operaio? Ora fa gola alla Germania

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di Sandro Mangiaterra

Sono passati quarant’anni e la classe operaia è ancora lì, alla ricerca del suo paradiso. Un paradiso sempre più lontano, in verità, se si pensa alle migliaia di posti bruciati dalla Grande Crisi, agli stipendi ogni mese più magri, alle preoccupazioni dei padri per il futuro dei figli. Ma tant’è.

Quei lavoratori descritti nel 1971 dal mitico film di Elio Petri, quando per la prima volta la macchina da presa entrava in fabbrica, sono invecchiati, hanno studiato e si sono specializzati, si mostrano meno arrabbiati e più rassegnati. Eppure, nonostante tutto, sono rimasti sul pezzo, resistono, lottano, sognano in epoca di globalizzazione esattamente come ai tempi del miracolo economico.

Operai: voce scomoda nel vocabolario della politica italiana. Argomento che «non tira» nemmeno a livello mediatico. Balzano all’attenzione dell’opinione pubblica solamente quando si abbarbicano su una gru, o bloccano un’autostrada, o mettono in scena qualche protesta eclatante di cui non si può fare ameno di parlare.

Reazioni esplosive di fronte a situazioni impossibili da accettare. Basta sentire Nicoletta Zago, la prima a salire, nel dicembre 2010, sulla torre della Vinyls di Marghera. «Perché dall’Eni abbiamo subito troppe ingiustizie, troppe umiliazioni ».

Una scelta rivendicata con orgoglio: «Ci volevano fare fallire tre anni fa, oggi l’area è stata bloccata a vocazione industriale e ci sono aziende interessate a subentrare. Siamo qui. Il destino della Vinyls non è segnato». Fatto sta che proprio la crisi ha portato con sé una «scoperta»: gli operai continuano a esistere.

E sono tanti: oltre 8 milioni nell’intera penisola, il 36 per cento degli occupati; 860 mila (di cui 340 mila donne) in Veneto, dove la percentuale sul totale di chi lavora sale al 38 per cento. «Si erano fatte molte congetture sulla loro sparizione nella società postindustriale, nell’Italia dei servizi, della cultura e del turismo», allarga le braccia Luciano Gallino, sociologo del lavoro (intervista nella pagina a destra), «ma gli operai non si sono volatilizzati. Soprattutto, sono rimaste le mansioni operaie, anche nel terziario».

Che cosa è successo, allora? Semplice, sono cambiati. Per questo si fa così fatica a capirli e a raccontarli. A inquadrarli dal punto di vista sindacale. Tanto più a rappresentarli politicamente, visto che, come dimostrano le analisi sui flussi elettorali del vicentino Ilvo Diamanti, in passato hanno votato per Forza Italia e Lega e adesso si sono avvicinati al Movimento cinque stelle di Beppe Grillo.

«A Marghera negli anni Settanta c’erano 45 mila operai — spiega Riccardo Colletti, segretario dei chimici della Cgil di Venezia—Ora se ne contano sì e no 5 mila e le tute blu hanno lasciato il posto ai camici bianchi: l’elettricista è diventato elettrostrumentista, l’addetto alle macchine adesso si chiama tecnico di produzione».

Evoluzione (e selezione) della specie. «Il 45% degli operai veneti ha almeno un diploma in tasca—continua Emilio Viafora, che della Cgil è il segretario regionale — E ciò che conta maggiormente è l’alta specializzazione, l’innalzamento delle competenze, quello straordinario insieme di saperi che è stato il motore dello sviluppo del territorio».

Non a caso le aziende tedesche, e in generale del Nord Europa, hanno cominciato a fare scouting dalle nostre parti, in caccia di personale qualificato. Ottimo, si direbbe. Se non fosse per un particolare: il lavoro manca per i giovani (il tasso di disoccupazione nella fascia tra i 15 e i 24 anni, pur nel Nordest della moltitudine di fabbriche e fabbrichette, sfiora il 20%) ed è a forte rischio per i quaranta- cinquantenni.

Dal 2008, in Veneto sono andati persi 90 mila posti. «Uno stillicidio, che ormai non risparmia nessun settore — commenta Bruno Anastasia, alla guida del dipartimento ricerche di Veneto lavoro—Né si capisce come potrebbe avvenire un’inversione di tendenza: per le imprese dovrebbe tornare a essere conveniente investire, innovare, crescere. E assumere. Invece ci si difende solo con gli ammortizzatori sociali, per i quali al Veneto, nel 2012, sono andati complessivamente 1,6 miliardi».

Conclusione: i tempi per il riassorbimento nel mondo del lavoro sono raddoppiati e oggi risultano in media di un anno. Senza contare che la ricollocazione, quando si presenta, passa quasi sempre per un rapporto a tempo determinato. Insomma, la sensazione che si vive nei capannoni è di grande precarietà.

A volte in senso stretto, legata ai tanti contratti atipici, altre sotto forma di paura. Da un sondaggio condotto dall’agenzia per il lavoro Openjobmetis e dall’istituto di ricerche Ispo, emerge che il 63% di chi un’occupazione ce l’ha si sente comunque instabile e insicuro.

«Non ci dormo la notte — racconta Moreno Ceron, 55 anni, due figli, manutentore elettrico alla Bisazza di Alte (Vicenza), una delle imprese simbolo del miracolo Nordest, che ha appena dichiarato di volere avviare le procedure di mobilità per una ventina di dipendenti— Mi guardo in giro, mi do da fare, ma mi sento rispondere che sono nella classica categoria di chi è troppo giovane per la pensione e troppo vecchio per trovare un lavoro. Il fatto è che le bollette continuano ad arrivare anche se ti ritrovi disoccupato ».

Già, le bollette. Perché anche ammesso di tenerselo stretto un lavoro, rimane poi il problema di riuscire a viverci. Come si fa a sbarcare il lunario con uno stipendio lordo di 22 mila euro all’anno, che tradotto fanno, nella migliore delle ipotesi, 1.300 euro netti in busta paga al mese?

Con una retribuzione che nell’ultimo decennio ha perso il 3,1‰ semplicemente in confronto all’inflazione? La risposta è ovvia: non ci si riesce. L’Istat calcola, per le famiglie del Nordest, una spesa media mensile di 2.811 euro. I conti sono presto fatti: chi ha un solo reddito e magari due o tre figli si ritrova nei guai. Hai voglia a parlare di aumento della produttività, riforme dei contratti,


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